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Errare a scuola: how many roads must a student walk down?

Pubblicato il: 29/07/2010 19:07:54 -


Diversi anni fa mi era capitato in classe, una terza media, un alunno ripetente, un concentrato di carenze e atteggiamenti provocatori dichiaratamente “fascista” e “razzista”, nella misura in cui può esserlo un bullo sedicenne che ami proclamarsi tale con spavalderia.
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Sul tempo dell’“errare” a scuola di cui abbiamo parlato nei nostri due precedenti interventi (“Un modello di carcere da portare a scuola” e “Fuori programma. Per una scholé di autòs-didàskaloi”) vorrei offrire infine, perché forse a questo punto non inopportuna, una piccola testimonianza personale. Anche la più nota canzone di Bob Dylan, di cui abbiamo parafrasato nel titolo il primo verso – canzone divenuta non a caso già quasi mezzo secolo fa l’“inno generazionale” di un vero e proprio soggetto sociologico ignoto ad altre epoche, quello dei “giovani”- ci ricorda, esattamente come i grandi romanzi di formazione, che vi è un tempo non lineare, aperto e imprevedibile a dispetto di ogni “programma”, e soprattutto esposto al fallimento, dietro ogni autentico apprendimento inteso come sviluppo di padronanze e, in ultima analisi, di coscienza. A riprova del fatto che anche i “ribelli” di un tempo -giacché oggi i ribelli sono scomparsi, e sono rimasti soltanto i “giovani” – sapevano bene che esiste, e non rivendicavano altro che un tempo per imparare, anzi imparare meglio. Un tempo fatto di strade su cui errare.

Diversi anni fa mi era capitato in classe, una terza media, un alunno ripetente, un concentrato di carenze e atteggiamenti provocatori piuttosto rari nella scuola media-media in cui opero (media in tutti i sensi: per grado di istruzione, quartiere, milieu socio-economico-culturale). Dichiaratamente “fascista” e “razzista”, nella misura in cui può esserlo un bullo sedicenne che ami proclamarsi tale con spavalderia, ostentava effigi mussoliniane, disprezzo per immigrati, nomadi, gruppi etnici “non ariani”, genere femminile in quanto “inferiore”, a partire dalle compagne di classe. Pur sottolineando sempre la mia totale ripugnanza verso tali esternazioni, non sono mai intervenuto in modo censorio nei suoi confronti, lasciando al contempo pieno campo libero alle proteste dei compagni di classe, fino al limite in cui, paradossalmente, in momenti altamente conflittuali, dovevo scendere in campo io stesso per difendere il suo diritto di parola, secondo il ben noto principio di Voltaire (difesa contro cui egli addirittura protestava, sostenendo che io in quanto “capo” avrei dovuto impedirgli di parlare!). Le dinamiche che in tal modo si innescavano, e che mi sforzavo di lasciar scorrere e arbitrare nel modo il più possibile impersonale e distaccato, sono state quell’anno più proficue di qualunque discorso cattedratico sulla cittadinanza o la visione di tanti ottimi film sul tema, perché si muovevano sul terreno del concreto coinvolgimento emotivo dei ragazzi, innescando reazioni istintive assolutamente pre-politiche, pre-ideologiche, capaci di generare non tanto “lezioni” o peggio precetti moralistici ex-cathedra, quanto esercitazioni, allenamenti, palestre di educazione civica, in cui il riconoscimento dei fondamenti della convivenza avveniva “dal basso”, in una comune co-struzione dialogica anche fortemente polemica ed emotiva. Ma c’è ancora dell’ altro. A un certo punto ho coinvolto questo alunno (che peraltro, oltre a non rinnegare mai i suoi “principi”, come ho già detto andava malissimo in italiano) in un seminario-concorso di poesia organizzato dalla nostra scuola nell’ambito della Bibliorete romana. Una giuria qualificata in campo letterario ha infine ritenuto i testi del mio aspirante squadrista (e non poeta, dato che riteneva anche tutt’altro che dignitosa tale qualifica) meritevole del primo premio (un ricco buono per l’acquisto di libri che forse non avrà mai acquistato…). Ma la cosa più singolare è che insieme ai sorprendenti meriti letterari venivano premiati anche i “valori civili” dei testi, che avevano per protagonisti le stesse figure di emarginati tanto disprezzate a parole in classe: barboni, nomadi, immigrati, raffigurati icasticamente in tutta la loro disperata condizione. Vorrei citarne una, lasciando a lui l’ultima parola:

LA BATTAGLIA
Degli stranieri
arrivano in svelte pose nemiche.
le loro camicie
si abbinano a soffici abiti e capelli.
Lungo le loro braccia,
ornamenti nascondono vene più blu del sangue,
simulando un benvenuto.
Contatto di occhi impauriti.
I loro pianti
si prosciugano lentamente,
sprigionando nuova paura
dove le paure regnano.
Il vento disperde il suono del terrore.
Di lì a poco
frecce scintillanti volano sulle loro teste.
Tremende grida avviano il combattimento;
devastante la gente che uccide senza pietà
uccide i loro simili.
Poi il silenzio detta legge.

(Andrea Santoro, III H)

Francesco Lizzani

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